Il titolo provocatorio vi fa già capire di cosa voglio parlare. Lo potrei declinare in maniera più ampia, dicendo “perché quando un film ha successo è merito degli artisti coinvolti e quando invece va male è colpa di chi lo distribuisce/promuove”?
Ho notato in questi mesi soprattutto tre casi interessanti legati al cinema italiano e su come affrontiamo l’andamento dei film nazionali.
Io capitano aveva aperto nel primo weekend con un dato tutt’altro che fallimentare, ma neanche spettacolare (un po’ sotto quanto aveva fatto Dogman). Molti erano preoccupati e critici, come se il film avesse già fallito, incolpando ovviamente il lancio. In realtà, ha avuto una tenuta straordinaria, tanto da moltiplicare i suoi incassi del primo fine settimana per circa 12, arrivando a 4,5 milioni di euro.
Il caso di Io capitano mi fa pensare che, ogni tanto, abbiamo una certa schizofrenia nel giudicare le uscite dei film d’autore. Vorremmo magari che arrivassero nelle stesse sale di Wonka e Avatar, ma che poi reggessero bene per sei mesi nei cinema. In realtà, perché non accettare serenamente che certi prodotti beneficiano di un’uscita più contenuta e attenta e in cui non è obbligatorio un incasso enorme nel primo weekend? Per esempio, proprio Io capitano era un film complesso, su una realtà distante dall’Italia, con attori ovviamente sconosciuti e soprattutto proposto in lingua originale con sottotitoli. Perché si presume che debba essere venduto come se fosse Pinocchio?
Un caso simile è quello de La chimera. Partenza lenta, in cui a un certo punto (il 2 dicembre) è arrivato un messaggio di Alice Rohrwacher e del protagonista Josh O’ Connor, che invitava il pubblico a richiedere ai cinema di programmare il film e di andare a vederlo. Per molti commentatori, questo ha cambiato radicalmente le sorti della pellicola, ‘migliorando’ il lavoro fatto fino a quel punto da distributore ed esercenti. Per quanto mi piacerebbe credere alle fiabe a lieto fine, in cui gli artisti determinano la promozione dei loro film, la realtà è un po’ diversa. Per capirlo, vediamo i cinema dove sono stati ottenuti i risultati migliori per il film, dal 23 novembre (debutto della pellicola) al 18 dicembre:
Anteo (Milano) 60.857 euro
Nazionale (Torino) 42.976 euro
Odeon (Bologna) 35.390 euro
Barberini (Roma) 27.893 euro
Fiorella (Firenze) 24.346 euro
Troisi (Roma) 23.732 euro
Modernissimo (Napoli) 22.483 euro
Eliseo (Milano) 21.826 euro
Rialto Studio (Bologna) 11.721 euro
La cosa interessante è che tutte le sale indicate sopra hanno iniziato la programmazione proprio il 23 novembre, a parte il Rialto di Bologna (arrivato il 14 dicembre), che, da quello che so, era già previsto sostituisse l’Odeon. Insomma, anche se alcune sale hanno aderito all’appello, gli incassi importanti sono arrivati da quelle che già lo programmavano, cosa che smentisce l’idea che le sale iniziali fossero ‘sbagliate’ e quelle arrivate in seguito abbiano portato al cambio di passo.
Insomma, non è che le sale ‘giuste’ prima non ci fossero, avevano magari solo bisogno di ‘carburare’ e il videomessaggio ha sicuramente aiutato a smuovere il pubblico. Quindi, ben vengano iniziative del genere da parte di realizzatori appassionati, basta non fare confusione sul loro vero impatto.
Arriviamo al caso di Misericordia, il film diretto da Emma Dante, e del messaggio che ha scritto su Facebook, suscitando forti discussioni. Ecco alcuni estratti:
“Il film non può resistere in sala perchè non ha entusiasmato? Ma un tempo il cinema d'essai come il teatro di ricerca anche con le sale vuote si difendeva con le unghie e con i denti, facendosene persino un vanto. c'era la convinzione che un certo tipo di film o un certo genere di spettacolo dovevano essere protetti a tutti i costi anche solo per una o due persone che ne avessero bisogno”.
Tralasciamo il “bisogno” (che è un termine eccessivo, non stiamo parlando dell’acqua, del cibo o delle cure sanitarie) e in che periodo storico gli esercenti si potevano permettere di programmare film per una o due persone senza dichiarare fallimento in breve tempo.
In realtà, c’è un problema maggiore in questo post e mi stupisce che non sia stato notato. Emma Dante vuole rimanere in sala, nonostante non solo gli incassi bassi ma anche un gradimento non straordinario da parte di chi lo ha visto (non è un’opinione mia, ma lo dice lei stessa, citando un esercente e relativamente alla reazione degli spettatori del cinema Beltrade). Il problema è che la sala non è come il salotto domestico, in cui posso avere a disposizione centinaia di prodotti diversi (tra free, satellite e piattaforme) e scegliere quello che voglio, senza che nessuno debba essere escluso per fare spazio a qualcun altro. D’altronde, non si dice che il cinema è un’esperienza unica? Direi che la frase va intesa anche nel senso di “c’è spazio per un solo film alla volta per schermo” o anche “se si programma il film di Emma Dante, non si programma quello di tanti altri”. Sono sicuro che sia una gaffe involontaria, ma quando si pensa che il proprio film vada protetto, implicitamente si sta insinuando che gli altri non meritino la stessa protezione (come detto, se sullo schermo viene proiettato il tuo film, non può essere proiettato il mio).
Un altro passaggio interessante:
“ma posso dire che dentro c'è tantissimo lavoro da parte di molti professionisti, c'è tanta cura, passione, c'è dentro il nostro sudore, la nostra fatica, il nostro talento, l'abnegazione, il sacrificio, l'intelligenza, il ragionamento, la tenacia, l'attesa dei tramonti e delle albe, il gelo, l'umidità, la luce e l'ombra che abbiamo pazientemente aspettato, c'è dentro tutto il nostro sapere perché nessuno si è risparmiato, mai!”
Qui, non ho dubbi sulla passione e l’impegno, ma mi chiedo: questo non si può dire di qualsiasi film? Chiunque abbia mai lavorato anche solo una settimana su un set, sa bene che gli orari sono durissimi e le cose da fare infinite. E non parliamo di serie che durano anche 25 settimane…
A me piacerebbe leggere un giorno un post in cui un regista italiano dicesse “ho avuto la possibilità di fare diversi film con risorse importanti, sono stato sostenuto bene e ho avuto modo di andare a Festival di prestigio, ma purtroppo il pubblico non ha risposto come speravo. Sono felice e grato di vivere in un Paese che permette agli artisti di esprimersi e di fare film, anche se i meri risultati economici non lo avrebbero permesso”.
Questo, a mio avviso, dovrebbe essere l’atteggiamento di tutti gli artisti (ma anche di tanti mass media) che vivono in un Paese che considera importante l’eccezione culturale e per cui vengono fatti degli investimenti pubblici, che altre categorie di lavoratori non ricevono. Va detto che poi i soldi sprecati veramente li vediamo in altri settori e non è neanche corretto definire un privilegiato chi fa cinema. Ma conviene sempre ricordarci che c’è chi sta peggio di noi.
Invece, l’atteggiamento generale è molto diverso, del tipo “se ci impegniamo abbastanza, centinaia di registi e centinaia di film avranno successo. E se non ce l’hanno, è colpa di qualcun altro, in particolare i distributori e chi comunica il loro film”.
In realtà, certi autori hanno il loro valore, che diventa ben chiaro quando arrivano almeno a tre film realizzati. Per esempio, Matteo Garrone con i suoi ultimi tre film (Dogman, Pinocchio, Io capitano) ha incassato solo in Italia più di 22 milioni di euro complessivi. Gli ultimi tre film di Alice Rohrwacher, nonostante siano tutti finiti in concorso a Cannes (e due su tre siano anche stati premiati), raggiungono circa i 2,5 milioni totali. Per i film di Emma Dante, si supera di poco il milione (quindi, media di circa 350.000 euro a titolo, Misericordia è poco sopra i 100.000 euro), nonostante Via Castellana Bandiera avesse ricevuto il premio per la migliore attrice al Festival di Venezia (Elena Cotta) e Le sorelle Macaluso fosse stato anch’esso presente in concorso al Lido. Questo non è certo un giudizio di merito, non significa che i film di Emma Dante siano belli un ventesimo di quelli di Matteo Garrone. Ma sicuramente significa che certi registi trovano (o non trovano) un pubblico più o meno ampio, non perché i distributori non siano capaci quando lavorano con loro, ma perché il numero di spettatori interessato a determinati prodotti può non essere ampio.
E questa non è una critica agli autori (se non per il fatto che sarebbe bello se mettessero prima in discussione il loro lavoro e poi eventualmente quello degli altri), né una difesa per i distributori (se non per il fatto che ho lavorato nel settore per tre anni e so bene le difficoltà che ci sono, compresi gli errori che si fanno).
Ma il problema è che, con questo atteggiamento, si dà l’idea che qualsiasi film sia vendibile a un ampio pubblico, basta impegnarsi e fare il giro delle sale in duecento piazze italiane (idea molto interessante, peccato che sia economicamente molto dispendiosa e significherebbe per un artista prendersi una pausa professionale molto lunga). In realtà il problema è proprio che l’offerta produttiva italiana è squilibrata e tende da una parte a realizzare tanti prodotti autoriali/sociali, con il solo scopo di andare ai festival (titoli che ovviamente si rivolgono a un pubblico limitato, che non può certo consumare tutta quella offerta), mentre la produzione di generi che sono seguiti dai più giovani (la maggioranza del pubblico cinematografico) è ridotta ai minimi termini.
Questo significa che un ampio numero di film italiani è destinato a smontare presto, come capita in tutto il mondo (anche in Paesi in cui la produzione è più rivolta al Mercato), visto che è un’ovvietà dire che la maggioranza delle pellicole non funziona. Quindi, piuttosto che pensare che il Mercato sia cattivo e che tanti film avrebbero potuto funzionare se fossero stati promossi bene, chiediamoci se c’è qualcosa da modificare. Perché non si può dire contemporaneamente “produciamo di meno” (giusto, per carità) e poi lamentarsi che non si hanno le opportunità di farsi vedere per un tempo adeguato. Se ci sono centinaia di film italiani da distribuire, mi sembra ovvio che non ci saranno mai queste opportunità e se un regista pretende di rimanere in sala a prescindere dai suoi risultati, la situazione si complica ulteriormente.
Se invece vogliamo concentrarci solo sui distributori, ci dimentichiamo che il problema dei film che non trovano spazio è in primo luogo di natura produttiva. E quando siamo convinti che gli artisti siano tanto bravi a promuovere i loro film, forse non ci abbiamo mai lavorato (io sì e so di cosa parlo) e non sappiamo quanto molti di loro siano veramente negati (e poco desiderosi di migliorare) in questo aspetto fondamentale che è la comunicazione. Insomma, come possiamo risolvere i problemi, se non abbiamo capito neanche quali sono le cause?