«Non vogliamo subire atteggiamenti ostruzionistici e accettare compensi irrisori da parte delle piattaforme streaming, per le stesse ragioni che hanno motivato il recente sciopero degli attori e sceneggiatori americani. Tutti reclamiamo trasparenza dei dati di sfruttamento delle opere audiovisive e adeguatezza dei compensi»
«Proprio le piattaforme che trattano e sfruttano dati si rifiutano, grazie al loro strapotere economico e contrattuale, di fornirci i dati previsti dalla normativa e di corrispondere conseguentemente i compensi agli artisti. E parliamo di multinazionali i cui ricavi vengono esclusivamente dallo sfruttamento di opere audiovisive»
Se ne parla da giorni: è la causa che la società di collecting Artisti7607 ha intentato contro Netflix e che ha visto dichiarazioni come quelle che ho citato sopra. Vediamo di fare chiarezza sui punti della questione, perché a leggere certi titoli (“compensi troppo bassi”) si potrebbe pensare che attori italiani anche di grosso nome vengano pagati come runner 5-600 euro a settimana.
La presidente Cinzia Mascoli, nell'articolo uscito ieri sul Fatto quotidiano a firma Federico Pontiggia, sostiene che, di fronte a una proposta della società di una percentuale sui ricavi di Netflix, l'Agcom "ha girato la testa dall'altra parte".
E’ una dichiarazione strana, considerando che in realtà l’Agcom si è espressa chiaramente e con dovizia di particolari ad agosto dello scorso anno, come potete leggere qui (31 pagine di documento, vi assicuro che potete trovare idee più divertenti su come passare la vostra giornata).
I punti fondamentali nella questione e nelle reciproche 'accuse' tra le parti sono stati questi (faccio una sintesi estrema):
- Comunicazione non fornita da Netflix sui suoi ricavi e sugli abbonati, nonché sui risultati della piattaforma
- Comunicazione non fornita da parte di Artisti7607 relativamente alle tariffe applicate e sulla quota di mercato di questa Collecting, in particolare sulla questione degli apolidi, ossia artisti che non sono rappresentati da nessuna collecting e che Artisti7607 voleva rappresentare nelle sue rivendicazioni alla piattaforma.
Sulle contestazioni allo streamer, Agcom ha decisamente preso posizione in favore di Netflix, in questi punti:
Il discorso è, invece, diverso (rispetto a quello fatto per le televisioni lineari, NdR), laddove si prendano in considerazione i dati relativi ai ricavi o al numero di abbonati di un intero servizio. In questi casi, tali informazioni certamente non sono collegabili a ciascuna singola opera, in quanto il numero di persone che sottoscrivono un abbonamento e il ricavo che deriva da tali sottoscrizioni hanno a che vedere con il servizio nel suo insieme e non con il consumo di un singolo elemento del catalogo.
Pertanto, con più specifico riferimento al procedimento di cui all’oggetto, si osserva che le informazioni che gli utilizzatori devono obbligatoriamente comunicare ad OGC ed EGI ai sensi dell’articolo in discorso non possono riguardare, in assenza di criteri certi e predefiniti per la determinazione del compenso, dati afferenti all'intero servizio.
Se questo è un discorso generale, nello specifico AGCOM dice:
Con riferimento particolare al procedimento di cui all’oggetto, per ciò che riguarda Netflix, l’indisponibilità a condividere le informazioni economiche è stata giustificata con la natura pre-contrattuale degli scambi intrapresi con Artisti7607. La Società ha ribadito in più circostanze la propria volontà di fornire i dati dei ricavi al momento del raggiungimento dell’accordo, ovvero una volta definite le modalità di calcolo del compenso. In proposito, si osserva che questo modus operandi è stato seguito da Netflix in tutte le altre negoziazioni, sia con altre collecting italiane, sia con collecting estere, ragione per cui è ragionevole ritenere che la Società avrebbe operato in questo senso anche nella circostanza di cui si discorre. Allo stato, pertanto, non paiono esserci elementi che possano far ritenere che il comportamento da parte di Netflix nei confronti di Artisti7607 abbia intenzionalmente voluto discriminare un solo soggetto, non ravvisandosi né l’interesse economico di una tale scelta, considerato che si tratta di un operatore con una “quota di mercato” senz’altro minoritaria, né altre finalità.
Per ciò che riguarda Artisti7607, la richiesta di ottenere le informazioni di natura economica, ed in particolare quelle sui ricavi, ai sensi dell’art. 23, non pare condivisibile, per le ragioni di cui sopra. Quanto alla possibilità di ricevere tali dati nell’ambito dello scambio delle informazioni di cui all’art. 22 del Decreto, in sede di negoziazione del contratto, è opportuno considerare che tale richiesta è stata formulata in assenza della comunicazione della tariffa, con ciò configurando una condotta potenzialmente lesiva del principio di equità e parità di trattamento, potendo integrare una violazione dell’art. 22, comma 3.
Insomma, secondo Agcom Netflix non è tenuta a fornire informazioni sui ricavi. Ma per quanto riguarda gli obblighi di Artisti7607? Anche qui AGCOM dà torto alla società di collecting, intanto sul discorso tariffe:
Nel corso del procedimento è emerso che Artisti7607 non ha comunicato a Netflix la tariffa applicabile per l’utilizzo delle opere riconducibili ai propri mandanti. Tale dato non era reso disponibile dalla Collecting sul proprio sito, come richiesto dall’art. 26, comma 1, lett. c) del Decreto. Gli argomenti sollevati da Artisti7607 per giustificare la mancata pubblicazione della tariffa non appaiono condivisibili. (qui segue un'articolata spiegazione su cui non mi dilungo, chi è interessato può trovarlo da pag. 23)
E per quanto riguarda la rappresentatività? Se ne parla qui:
In altre parole, le informazioni condivise non hanno consentito di individuare la rappresentatività di Artisti7607, cioè a dire la quota di mercato della Collecting sul catalogo di Netflix per ciascuno degli anni in questione. In un contesto nel quale sono presenti più operatori, tale informazione sembra essere dirimente anche a prescindere dal metodo di calcolo utilizzato. Tuttavia, anche laddove il modello utilizzato fosse quello del “pay-per-use”, in un simile contesto, le informazioni sulla rappresentatività sono imprescindibili.
A differenza di quanto potrebbe accadere, ad esempio, per i produttori fonografici, infatti, nel caso degli AIE (sia di opere audiovisive che di opere musicali) in ogni opera è presente più di un avente diritto, ciascuno dei quali potrebbe essere amministrato da una collecting diversa. La compresenza di artisti tutelati da diverse collecting richiede necessariamente di misurare quanto ciascuna di esse è “rappresentativa” all’interno di un’opera. Solo conoscendo in partenza il numero totale degli aventi diritto è possibile effettuare in maniera corretta questa attribuzione evitando ogni possibile distorsione.
Qui invece si parla degli apolidi:
Sebbene questa non sia la sede per una disamina approfondita della materia, l’Autorità si limita ad osservare, per quanto rileva ai fini del procedimento di cui all’oggetto, che – in mancanza di una soluzione condivisa ad oggi non ancora raggiunta - permangono dubbi in merito alla base giuridica che avrebbe consentito l’intermediazione in favore degli apolidi prima dell’entrata in vigore dell’art. 180-ter. Invero, in assenza di criteri chiari che consentano la quantificazione degli aventi diritto che non hanno conferito mandato ad alcuna collecting e la loro ripartizione presso gli organismi, esiste un forte rischio di arbitrarietà nella determinazione dei compensi ad essi spettanti.
Considerazioni analoghe sono state svolte anche dal Comitato consultivo permanente sul diritto d’autore istituito presso il Ministero della Cultura, nel corso della già menzionata attività di riesame del DM 386 del 5 settembre 2018. È certamente pur vero, per altro verso, che le somme che proporzionalmente sono attribuibili a tali soggetti non possono rimanere nella disponibilità degli utilizzatori e che dunque una soluzione che contemperi le diverse esigenze deve essere ricercata, nel primario interesse degli aventi diritto, cui quei compensi spettano.
Insomma, c'è un problema 'apolidi' e andrebbe risolto, ma la soluzione proposta da Artisti7607 per Agcom è giuridicamente fonte di dubbi.
Alla fine, Agcom delibera "l’archiviazione del procedimento avviato nei confronti Netflix International B.V. con sede in Karperstraat 8, 1075 KZ Amsterdam Paesi Bassi, per le motivazioni e nei limiti di cui in premessa", elencando una serie di ragioni. Io cito solo le prime due, ma chi vuole può trovarle tutte nelle ultime tre pagine del documento:
- che le inadempienze informative addebitabili ad Artisti7607, con particolare riferimento alle tariffe e alla rappresentatività, accertate nel corso dell'istruttoria, rendono di per sé inesigibile l’assolvimento dell’obbligo ex art. 23 contestato all’utilizzatore;
- che le informazioni richieste da Artisti7607 non risultano coerenti rispetto al canone di proporzionalità e di buona fede delle trattative;
Ora, se Artisti7607 avesse semplicemente detto “l’Agcom ha torto e per questo andiamo in tribunale”, io che non ho competenze legali specifiche in merito non avrei avuto nulla da ridire. Ma così sembra che Agcom si sia disinteressata della questione, il che non è vero.
Avendo spiegato i punti della questione (e come la società di collecting non abbia convinto l’Agcom delle sue ragioni), vorrei concentrarmi adesso su una questione che reputo anche molto più importante. Ed è: qual è l’atteggiamento di alcune realtà italiane nei confronti delle piattaforme? A me sembra che ci sia un vittimismo notevole, così come una convinzione che il lavoro degli artisti sia l’unica cosa che porta abbonamenti alle piattaforme. Si può leggere per esempio questa dichiarazione:
«A tutela dell’intera categoria Artisti7607 si oppone ad un sistema nel quale gli interpreti vengano sottopagati: accettare compensi che appaiono irrisori rispetto agli immensi guadagni generati da uno sfruttamento globale esponenziale delle opere audiovisive peserebbe come un grave precedente sul futuro di tutti gli artisti».
Questa è un’idea molto diffusa negli artisti, anche quando si parla di sfruttamento in sala, che potrei sintetizzare così: se un film funziona al botteghino, è merito di chi lo ha realizzato; se non lo vede nessuno, è colpa di chi lo ha distribuito.
Il prodotto insomma si vende da solo e peraltro tutti i contenuti valgono lo stesso, che si tratti di Squid Game con oltre due miliardi di ore viste o del film italiano che non arriva a un milione di ore. E quindi, non si devono calcolare le percentuali sui risultati effettivi delle opere italiane, ma su tutto quello che esce nel mondo e sui ricavi complessivi di Netflix.
Ma questo presuppone anche che non conta nulla il lavoro sulla user experience di una piattaforma (di recente, Bob Iger ha sostenuto di dover puntare proprio al livello tecnologico di Netflix, tanto per capirci). Così come non conta lo sviluppo dei prodotti, il marketing, la comunicazione e tutte le attività che vengono fatte all’interno di Netflix. In questi casi, mi pare che gli artisti pecchino sia di ingenuità, ma anche di sottovalutazione offensiva verso tutti quelli che lavorano a Netflix in Italia e nel mondo (e da parte di chi rivendica di difendere i diritti dei lavoratori, non è proprio encomiabile)...
Poi, conviene sempre ricordare che il modello delle piattaforme è stato a lungo (adesso iniziano a esserci varie eccezioni) di comprare tutti i diritti di un’opera, pagando di più (con una ‘premium fee’). Modello su cui si può discutere, ma che significa pagare di più in ‘partenza’ e non condividere eventuali successi. D’altronde, se Netflix non paga residuals al creatore di Squid Game, perché dovrebbe essere generosa con attori italiani protagonisti di prodotti che di solito non ottengono risultati straordinari (anche se, a leggere certe dichiarazioni, sono sicuro che in cuor loro sono convinti che Netflix ha successo grazie al loro lavoro).
E basta andare a vedere i budget e scopriamo che Netflix investe sui singoli titoli molto di più dei broadcaster tradizionali. Quindi, per quanto riguarda gli attori, si possono verificare due situazioni:
- Coerentemente con il modello produttivo di pagare una fee per acquisire tutti i diritti, l’attore che lavora con Netflix prende qualcosa in più rispetto a quanto sarebbe avvenuto con Rai o Mediaset. Cosa che ovviamente in queste comunicazioni si evita di dire, creando confusione in merito…
Se invece l’attore non prende nulla in più, personalmente consiglierei di fare una chiacchierata esaustiva con il suo agente, per capire qual è il problema e perché non si è riusciti a prendere una cifra adeguata.
Ovviamente, se gli attori italiani e chi li rappresenta come sindacato riescono a ottenere qualcosa hanno tutto il diritto di farlo. Il problema è che questo non genera una discussione serie sui diritti e su come magari lavorare tutti insieme al meglio, ma solo un circus mediatico basato su elementi di facile presa (“Netflix cattiva!”, “lavoratori sfruttati!”, “le multinazionali sono avide”) e che ovviamente si vende bene su giornali e siti Internet. Io spero sempre che si possa salire di livello. Ma ogni tanto penso di essere un ingenuo e di dover utilizzare meglio il mio tempo che a fare debunking su queste polemiche superficiali…