Ma gli sceneggiatori e gli attori americani non avevano vinto?
Il problema è: cosa hanno vinto…
Uno dei temi su cui nell’ultimo anno mi sono scontrato molto con gli addetti ai lavori è come valutare l’accordo che era stato chiuso dalla WGA con i produttori americani, dopo tanti mesi di sciopero. Io ero molto scettico (e ne avevo scritto qui), tutti gli sceneggiatori parlavano di una grande vittoria.
In realtà, c’erano degli errori di base, alcuni dei quali legati alla bolla produttiva che abbiamo vissuto. Intanto, si dimenticavano i tanti professionisti entrati nel Mercato in questi anni: cosa sarebbe successo per la loro carriera se poi il volume di produzioni si fosse ridotto, come è effettivamente avvenuto? Inoltre, si facevano valutazioni economiche su quanto si sarebbe ottenuto economicamente di più rispetto al precedente contratto. La stima della WGA era di 233 milioni di dollari all’anno, ma è evidente che solo una di queste due ipotesi può essere corretta:
La valutazione è stata calcolata in base al volume di produzioni nel periodo pandemico e quindi le cifre reali saranno decisamente minori
Se anche fosse stata calcolata in maniera prudente, significherebbe che la WGA sapeva benissimo che la bolla produttiva stava per scoppiare, con tutte le conseguenze negative che conosciamo. E quindi cosa festeggiavano? Una sconfitta che raccontavano essere una vittoria?
Troppi si erano concentrati sui residual delle piattaforme e hanno gioito per quella ‘vittoria’. Ma chi analizza quei dati, come la newsletter Entertainment Strategy Guy, nota recentemente come nel 2023 solo 11 delle 86 serie che sono finite in top ten dovrebbero aver raggiunto la soglia per ottenere questo riconoscimento. Io non sono sicuro che ci siano riusciti in undici, ma anche se fosse, non parliamo di 11 su 86 serie, perché il numero totale di prodotti che non sono finiti in top ten è decisamente maggiore (almeno qualche centinaio). Quindi, di che parliamo, di un 3-5% di sceneggiatori premiati dai residuals? E chi sono questi sceneggiatori? Per Netflix, si dà per scontato che due serie ce l’abbiano fatta: The Night Agent e La regina Carlotta: Una storia di Bridgerton. Ossia, Shawn Ryan da una parte, Shonda Rhimes dall’altra. Se non sapete chi sono e quanto guadagnano normalmente, fatevi una ricerca. E chiedetevi se fosse il caso fare guerre sante per loro. A scanso di equivoci, per me chi ha enormi successi ha diritto di guadagnare tantissimo, ma non la raccontiamo come una questione di diritti fondamentali, come se parlassimo di braccianti agricoli.
E quindi mi chiedo: ma chi sosteneva che lo streaming avesse portato alle piattaforme guadagni enormi e a livello del petrolio, ha cambiato idea? E chi li sosteneva (magari realtà che si preoccupavano di far guadagnare di più sceneggiatori già ricchi, ma che magari avevano e hanno problemi a pagare regolarmente chi lavora per loro), ha avuto modo di modificare il giudizio?
Altra questione importante, le mini-room. Premessa: erano diventate spesso un modo per sfruttare gli sceneggiatori, soprattutto quelli più giovani/esordienti. In generale, quindi, non c’è da rimpiangere il fatto che - dopo gli scioperi e gli accordi chiusi nel nuovo contratto - i produttori abbiano sostanzialmente abbandonato questo ‘format’, almeno a quello che raccontano alcuni agenti alla newsletter The Ankler. Tuttavia, dovremmo chiederci: se si chiude un accordo con regole molto strette (comprensibili, ripeto, in questo sono dalla parte della WGA) e questo porta alla cessazione delle mini-room, non si rischia di perdere anche un’opportunità? Non c’è il rischio che nuove generazioni di sceneggiatori non abbiano modo di esordire e che magari bisognerebbe trovare una soluzione che metta assieme varie esigenze, senza permettere lo sfruttamento di nessuno, ma consentendo qualche vantaggio ai produttori che forniscono opportunità (così come in tanti altri campi ci sono sgravi fiscali per chi assume dei giovani alle prime esperienze lavorative)?
Sempre dai resoconti degli agenti a The Ankler, capiamo che la situazione si è bloccata/rallentata a livello di progetti sviluppati e portati avanti dai produttori/finanziatori per due ragioni principali. Intanto, già prima degli scioperi c’era un’abbondanza evidente di materiale in sviluppo. Seconda cosa, i vincoli economici per molte società sono veramente stretti, anche per Apple e Amazon, che stanno riducendo i budget, sia per quanto riguarda lo sviluppo che le produzioni.
Ma per valutare meglio la situazione attuale, si può andare a pescare anche altri articoli recenti. E’ vero che in alcuni di questi pezzi ci sono pochi numeri concreti e molta aneddotica (racconti personali di gente in difficoltà), ma un quadro lo danno. Qualche dato dall’Hollywood Reporter:
Un decennio fa, i broadcaster hanno ordinato complessivamente 98 puntate pilota di possibili serie. Ora, si possono contare sulle dita di una mano.
L’Entertainment Community Fund, che ha fornito assistenza con fondi, workshop e addestramenti per chi lavora nell’industria del cinema e dell’audiovisivo, ha già distribuito 3,25 milioni a 1.600 persone dal 1 gennaio al 22 marzo e al momento sta fornendo 200-300.000 dollari a settimana. Questo dopo aver già dato 18,8M nel 2023 in occasione degli scioperi a 8.500 persone (tra cui più di 600 sceneggiatori).
Il report della FilmLA mostra la situazione del primo trimestre completo dopo la fine degli scioperi. Questo periodo, da gennaio a marzo, ha visto 6.823 giornate di ripresa, con un calo del 9% rispetto allo scorso anno e più del 20% di flessione rispetto alla media degli ultimi cinque anni (va detto che, sempre dallo stesso report, la situazione era peggiore a gennaio e in miglioramento a febbraio e marzo, Ndr).
Sempre sulla newsletter di The Ankler, ci sono diversi dati interessanti, anche al di là degli sceneggiatori. Dopo i grandi licenziamenti di un anno fa (solo Disney ha fatto a meno di 7.000 persone nel mondo), si nota come - in un Mercato americano in cui i posti di lavoro aumentano - nell’audiovisivo si continuano invece a perdere, per colpa soprattutto dell’alto debito di tante aziende, che le porta alla soluzione più facile (i licenziamenti) per migliorare il giudizio di Wall Street. In particolare, si cita uno studio secondo il quale, tra maggio e ottobre dello scorso anno, l’industria dell’intrattenimento avrebbe perso il 17% della propria forza lavoro.
Alla fine, quello che si ripete in questi articoli (e me lo hanno confermato anche dei produttori italiani che lo sentono in occasione di appuntamenti internazionali), è sempre una versione del “dobbiamo sopravvivere fino al 2025, poi le cose andranno meglio” (anche se in alcuni casi, soprattutto per l’Europa, ho iniziato a sentire “dobbiamo sopravvivere fino al 2026”). Non è proprio un messaggio ottimistico.
Credo che, in tutto questo, si debba riflettere anche sulle responsabilità di chi ha parlato entusiasticamente di una crescita quasi infinita, sia che si trattasse di posti di lavoro (quanti giovani sono stati convinti a fare master costosissimi perché poi avrebbero trovato senza problemi posti di lavoro ben pagati? Alcuni li conosco pure e sarebbero anche bravi, peccato che ormai hanno perso il treno) o di un volume di produzioni ‘miracolosamente’ sempre in crescita. Ma la realtà è molto diversa. E dobbiamo iniziare a non nasconderla più…