Si parla tantissimo della possibilità che la nuova amministrazione Trump favorisca un aumento di fusioni e acquisizioni negli Stati Uniti. Oggi però mi chiedo: cosa succederà in Italia, adesso che la bolla delle produzioni è scoppiata e l’incertezza/i ritardi sul tax credit hanno bloccato l’attività delle società?
Il problema ha origini un po’ datate e peraltro non si può dire che non ne abbia già parlato più volte. Il ‘peccato originale’ nasce con una Legge Franceschini che ovviamente ha avuto tante conseguenze positive nel nostro settore, ma che non ha posto norme/incentivi non dico perché le società italiane acquistassero quelle straniere, ma soprattutto per evitare che lo ‘shopping’ avvenisse soltanto in una direzione, con le nostre grandi aziende che ormai sono quasi tutte di proprietà straniera (con poche eccezioni di alto livello).
Ora, qui non è questione di difendere l’identità italiana da chissà quali ‘nemici’ stranieri. E’ soltanto questione di buon senso, perché ovviamente realtà europee che si ritrovano con quattro o sei aziende italiane, in questo periodo complicato, hanno tutte le ragioni per cercare di diminuire i loro costi, in qualsiasi modo (dal semplice ridimensionamento del personale e dei progetti alla chiusura definitiva di qualche società italiana).
In questo contesto, non mi tranquillizza proprio un recente articolo della newsletter The Ankler, che ha affrontato la realtà europea e i suoi possibili sviluppi. Anche se ovviamente non si parlava di specifiche realtà italiane, il quadro che si faceva dei grandi gruppi (definiti “superindies”) era tutt’altro che rassicurante, tra chi ha acquistato tantissimo in questi anni e/o aziende come Banijay, che secondo gli analisti sentiti da The Ankler, “sta concentrando i propri sforzi sul trovare la ‘giusta dimensione’” (“right-sizing the business”).
Ci sono poi altri colossi che, sempre secondo The Ankler, potrebbero andare in vendita. Tra questi, viene citata Mediawan (anch'essa molto ben presente nel nostro Paese), che avrebbe condotto una politica aggressiva di acquisizioni in questo periodo per ingrandirsi e vendersi meglio. Altra realtà che conosciamo bene e che starebbe puntando a una cessione (sempre secondo The Ankler), è Federation, che secondo Broadcast avrebbe assunto Morgan Stanley per valutare meglio le proprie opzioni.
Inoltre, la Reuters a fine ottobre ha scritto che RTL Group (proprietario di Fremantle) starebbe cercando un partner per dar vita a una fusione vendendo una quota di minoranza di Fremantle. Ma un esperto interpellato fa capire che RTL Group non è l’unica grande realtà interessata a perseguire questa strada.
In tutto questo, senza fare nomi, qualche segno di scricchiolio e di difficoltà in Italia è evidente. Ma vorrei chiarire assolutamente una cosa: non sto scrivendo questo articolo per generare allarmismo. Lo sto facendo perché sono molto preoccupato non solo della situazione in sé, ma anche perché non mi sembra ci sia nessun intervento in merito. Anzi, le nuove norme sul tax credit, che limitano le percentuali eleggibili di tax credit per i grandi gruppi, magari possono anche essere comprensibili e giustificate dagli eccessi di questi anni, ma in questo momento sono un ulteriore incentivo per queste aziende a ridurre il loro coinvolgimento in Italia.
E detto che il problema, come scritto, non è certo nato oggi e di sicuro non con questo governo, in ogni caso un modo di affrontarlo bisogna trovarlo. Perché, anche quando si parla di aziende di proprietà estera, si tratta comunque di posti di lavoro italiani, sia diretti (chi è impegnato stabilmente in una casa di produzione) che indiretti (tutto l’indotto derivante da film e serie che magari verranno tagliate). Non è il caso che tutto il settore si ponga la questione?