Credo che questa intervista, realizzata da Variety con il Presidente francese Emmanuel Macron, andrebbe fatta leggere a tanti addetti ai lavori italiani. Per esempio, anche solo per l’atteggiamento verso Emily in Paris. Da noi sono bastate un paio di puntate girate a Roma e sono partiti i piagnistei sugli stereotipi nei nostri confronti. In Francia, la First Lady partecipa con un cameo alla serie e Macron afferma che “Emily in Paris è molto utile per rendere attrattivo il nostro Paese. Per quello che mi riguarda, è un'ottima iniziativa”. Forse, lo stesso atteggiamento servirebbe per risolvere cinque questioni che, a mio avviso, danneggiano il nostro settore e su cui non mi sembra ci sia l’attenzione necessaria…
A chi giovano certe aziende?
Alcune società di produzione italiane hanno sfruttato questo periodo di bolla per crescere e far crescere le proprie risorse, finanziarie e umane. C’è chi invece ha puntato su budget altissimi, spesso totalmente sproporzionati al valore commerciale di quello che stavano producendo. Questo ha portato, come era scontato, a due problemi enormi: quello di indebitare le società in questione. E quello di costare molto allo Stato, visto che il livello di Tax Credit ottenuto è ovviamente collegato all’entità dei budget. Abbiamo quindi delle società che non stanno bene economicamente e uno Stato che ha speso molto su di esse senza risultati positivi. E speriamo che le loro controllanti non decidano di chiuderle!
In ogni caso, non possiamo far finta che le nuove norme siano automaticamente in grado di garantire che non verranno tirati fuori soldi per prodotti che non vede nessuno. Certo, un film da 20-30 milioni di budget verrà visto di più di un prodotto low cost da meno di un milione (anche solo perché avrà un P&A molto più alto), ma proporzionalmente parlando, verrà visto in maniera adeguata ai soldi (privati e pubblici) tirati fuori? Non è detto e se le istituzioni non si decidono a valutare i risultati e a collegare magari il Tax credit a questi risultati, non ne usciremo mai. Insomma, chi spende in maniera ragionevole e ottiene numeri importanti dai vari sfruttamenti (che devono essere analizzati con attenzione e non con la solita superficialità, tipica del nostro settore), per me ha diritto al Tax credit pieno, anche senza i limiti messi quest’anno e legati al fatturato (delle società stesse o di quelle che le controllano). Chi invece punta solo a fatturare cifre enormi, senza generare utili (non solo finanziari, ma anche e soprattutto di visibilità dei nostri prodotti, in Italia e all’estero), deve essere penalizzato con un Tax Credit inferiore.
Ma sapete cosa penso, molto sinceramente? Che tra qualche anno, per sostenere che i cambiamenti fatti sono stati positivi, si dirà che certi film sono usciti al cinema e certe serie sono andate su Netflix in “190 Paeeeesiiiii!” e che questo è avvenuto in proporzione più degli anni passati. Ma possiamo accontentarci semplicemente di questi dati? Troppo facile, non significa automaticamente che i soldi siano spesi bene.
Anche perché vorrei sapere bene come vengono fatte certe ricerche relative a “numero di film prodotti e poi usciti al cinema”. Non ha molto senso, per esempio, leggere analisi in cui ti dicono che i film che hanno preso il Tax credit nel 2023 non sono ancora usciti in sala nel 2024: magari sono in postproduzione adesso, no? D’altronde, con questo criterio, anche i nuovi film di Sorrentino, Muccino, Placido e Salvatores, tutti in arrivo nelle prossime settimane, dovrebbero essere inseriti nella lista del “non sono usciti al cinema, vergogna!”. E comunque, se i film non escono in sala, dovrebbero restituire il Tax Credit, che peraltro non viene elargito completamente e subito (prima un acconto, la parte restante solo quando si è dimostrato di aver fatto tutto il dovuto, compreso il passaggio nei cinema). Quindi, paradossalmente un titolo che non arriva in sala, permette allo Stato di risparmiare dei soldi rispetto al previsto. Il che non significa che non ci sia un problema di fondo (c’è, assolutamente), ma a leggere certi resoconti sembra che i produttori si siano presi il Tax credit al 100% e poi abbiano pensato bene di risparmiare, senza passare per il theatrical…
Stiamo difendendo i posti di lavoro?
Lo accennavo sopra. Una delle mie maggiori preoccupazioni in questi anni è stata: come si comporteranno le grandi società estere, che magari hanno fatto uno shopping selvaggio di case di produzione italiane (tanto da avere ormai l’equivalente dell’armadio di scarpe di Carrie Bradshaw), una volta che la bolla sarà conclusa? Ora, temo che non dovremo aspettare molto per saperlo. D’altronde, che senso ha per alcune realtà mantenere 4, 5 o 6 case di produzione italiane che rischiano di cannibalizzarsi tra di loro, mentre intanto ognuna di esse ha costi fissi notevoli?
Il fatto che questa situazione andasse affrontata molto prima (magari con norme che favorissero la crescita di aziende italiane autonome e non il fatto di cedere la loro indipendenza a realtà straniere), non significa che adesso si debba far finta di niente. Perché queste multinazionali comunque determinano gran parte della produzione italiana e se perdessero di interesse nel nostro Mercato, probabilmente chiuderebbero/fonderebbero delle società importanti, con perdite di posti di lavori diretti e soprattutto indiretti (meno prodotti e meno investimenti sulle singole produzioni, significa una perdita per tutta la filiera). Il fatto di voler diminuire il tax credit per chi ha fatturati importanti (e da calcolare a livello della casa madre, non della realtà italiana) non è un passo molto incoraggiante…
Ma difendiamo le nostre realtà?
Collegata a questa domanda, ci si chiede: cosa facciamo per far crescere le aziende ancora completamente italiane? I francesi hanno Banijay che compra Endemol Shine, così come Mediawan che (oltre ad avere diverse aziende italiane, tra cui Palomar e la neonata Our Films) ha rilevato l’azienda di Brad Pitt, la Plan B. E la più potente/prestigiosa agenzia di rappresentanza statunitense, la CAA, è stata acquistata dal Groupe Artémis, che è di proprietà di Kering di François-Henri Pinault. Banijay è quotata alla borsa di Amsterdam, mentre Vivendi sta per fare lo stesso con Canal+ a Londra. I francesi hanno ARTE (che anche se non è certo Netflix, si è ritagliata un suo spazio importante), noi abbiamo avuto ItsArt ed è meglio non commentare.
Nei mesi scorsi, si è parlato di mettere assieme un gruppo di aziende italiane per essere più competitive all’estero (e nel settore è girato qualche nome), ma sembrerebbe proprio (e spero tanto di essere smentito presto) che non ci siano risultati concreti. Eppure, da un governo che parla sempre di interessi nazionali, ci si aspetterebbe che questa diventasse una priorità, no?
E i cinema?
Come sottolineava Xavier Albert quando l’ho intervistato, le due maggiori catene di cinema francesi sono due realtà effettivamente francesi, ossia Pathè e CGR. In Italia, nelle sale UCI e The Space si vendono circa il 40% di tutti i biglietti acquistati nel nostro Paese, ma le società appartengono a due gruppi internazionali (rispettivamente, Odeon/AMC e Vue), cosa sempre preoccupante, per ragioni simili a quelle che ho raccontato per le case di produzione. Gli indipendenti italiani sono per lo più confinati in realtà locali e anche se magari ottengono buoni risultati in quelle regioni, non sembrano avere la forza di espandersi in maniera forte in tutta Italia. Ecco, visto che i contributi alle sale sono tanti (anche se non generano minimamente le discussioni dei fondi ai film cinema, e questo è interessante), forse riflettere sul cercare di sostenere realtà italiane e farle crescere, non sarebbe male…
Ma la macchina può funzionare da sola?
Da anni si dice che la Direzione Generale Cinema e audiovisivo del MIC avrebbe bisogno di più risorse umane, intendendo ovviamente che, per il lavoro da svolgere (soprattutto adesso che sono aumentati a dismisura film e serie che richiedono contributi pubblici e incentivi fiscali), c’è bisogno di maggiore personale, anche per fare le verifiche del caso. Tutti si lamentano e concordano, magari citando il caso del CNC francese, che ha molti più dipendenti (quasi cinque volte tanto). Ma poi tecnicamente non si riesce a rendere la DGCA simile al CNC. Magari si continua a spendere per le produzioni cifre importanti a livello di sostegno pubblico (e che ormai sono su numeri simili alla Francia), ma senza trovare il modo di gestirle al meglio. Eppure, credo che anche le società di produzione, così come gli esercenti, i distributori, le troupe, chi lavora nella post-produzione, insomma tutto il reparto del cinema e dell’audiovisivo, sarebbe ben felice di destinare una parte delle risorse pubbliche per rafforzare chi deve portare avanti la macchina, che troppo spesso rimane ingolfata e rallenta tutte le procedure. Senza considerare che una squadra di lavoro più ricca potrebbe anche svolgere un lavoro di analisi, che magari metterebbe in luce situazioni discutibili (soprattutto su budget e veridicità dei costi). Qualcosa sembra muoversi (anche per quanto riguarda un maggiore controllo sulla veridicità delle spese) e speriamo nei prossimi mesi di avere notizie positive…
Concordo con la maggior parte delle cose dette in questo articolo. C'è però una cosa che non capisco: come si possa collegare il Tax Credit ai risultati commerciali ottenuti. Il Tax Credit è un meccanismo automatico concesso in base a determinati requisiti, che viene in parte erogato al termine della verifica effettuata sui vari passaggi. L'unica cosa che non si può predeterminare è il successo o meno di un film...Non si possono certo valutare i risultati e, se negativi, ritirare il credito concesso in partenza, condannando la società di produzione a una doppia perdita.