In questa serie di articoli, in cui parlo del nuovo tax credit (ma non solo), mi sono concentrato su alcuni aspetti specifici. Per chi volesse uno sguardo più generale, consiglio il webinar che ha fatto Emanuele Caruso e che potete trovare qui.
Partiamo ovviamente dal nuovo requisito principale per ottenere il tax credit:
“in grado di comprovare, con idonea documentazione indicata dalla DGCA, la copertura finanziaria con risorse di origine privata di almeno il 40 per cento del costo di produzione dell’opera”
L’obbligo di avere il 40% del budget coperto è (relativamente) facile da soddisfare per le grandi aziende, ma sarà molto complicato per le altre. Detto che capisco l’esigenza di limitare il numero di film prodotti (che è diventato strabordante, soprattutto per documentari e cinema d’autore), forse la posizione ‘bianco/nero’ di questa norma sarebbe da attenuare. Per esempio, stabilire che su determinati budget, sotto una certa soglia, l’obbligo di copertura finanziaria sia inferiore (15%? 20%? 30%? Parliamone). Va detto comunque che ci sono delle eccezioni importanti:
In alternativa a quanto previsto al comma 1, sono altresì ammissibili le opere cinematografiche destinatarie di almeno uno dei seguenti contributi:
un contributo selettivo alla produzione di cui agli artt. 26 e 27 della legge n. 220 del 2016, a valere sui bandi pubblicati dopo il 1° gennaio 2024;
un contributo da parte di organismi sovranazionali nell’ambito di programmi gestiti dal Consiglio d’Europa e dall’Unione Europea.
In questi mesi, il ministro Sangiuliano ha polemizzato spesso sui contributi milionari, con dichiarazioni come “ci sono film che hanno avuto un numero di spettatori che si contano sulle dita di una mano e sono stati dati milioni e milioni di euro per realizzare prodotti che non hanno avuto riscontro del pubblico”. Polemica che avrebbe potuto essere interessante e proficua se avesse affrontato l’esplosione dei budget nel cinema italiano e i relativi risultati (come dico da tempo, non c’è nessun collegamento diretto tra budget alti e incassi alti).
In ogni caso, queste affermazioni avrebbero fatto pensare a una riduzione importante del tax credit per i film più costosi. Bene, a quanto è stato messo il limite per il tax credit di un film? A 9 milioni. Insomma, nulla vieta che ci siano altri casi del genere, se non forse il fatto che i budget da 20-30 milioni nei prossimi anni li vedo improbabili (ma per ragioni di Mercato/risorse private, non di contributi pubblici).
Hanno però fatto molto discutere alcune norme, obbligatorie per poter ottenere (e non perdere) il tax credit. Per esempio, questi gli obblighi di uscita:
per le opere con un costo superiore a euro 3.500.000: un adeguato piano di promozione con un investimento non inferiore a euro 300.000 e la previsione, entro quattro settimane dalla prima uscita, di almeno 2.100 proiezioni in almeno 100 sale con una proiezione almeno nella fascia oraria 18,30-21,30;
per le opere con un costo inferiore o pari a euro 3.500.000: un adeguato piano di promozione con un investimento non inferiore a euro 90.000 e la previsione, entro quattro settimane dalla prima uscita, di almeno 980 proiezioni in almeno 70 sale con una proiezione almeno nella fascia oraria 18,30-21,30
E’ paradossale la contrapposizione tra richieste bassissime per il lancio del film (che dipende sicuramente da produttori/distributori) e obblighi di proiezioni, che dipendono più dagli esercenti. Iniziamo dai primi, per cui si sono messi dei paletti ai P&A che più che paletti… in realtà sembrano degli spilli. Un film che costa 10/15/20 milioni di euro può avere un P&A di 300.000? Non scherziamo, ma questa cifra è sufficiente per rispettare i parametri stabiliti dalle nuove norme sul tax credit. Tuttavia, è ovvio che un film così costoso (produttivamente parlando) e che investe così poco nel lancio, è un film che non ha mai seriamente pensato di guadagnare qualcosa in sala (e quindi non dovrebbe essere considerato un film cinema a livello di tax credit, ma essere ‘trasferito’ di peso nell’altra categoria, quella per le opere televisive/web).
E veniamo al numero di proiezioni. A me non sembrano cifre folli di per sé, in particolare per i titoli da 3,5 milioni di euro in su. Anche perché film italiani che non sono costati un’enormità, ma che sono arrivati in un bel numero di copie ne abbiamo e non pochi. Pensiamo ad alcuni titoli sotto i sei milioni di euro di budget, come Dieci minuti (188 sale), Una storia nera (252), Sei fratelli (245) e Felicità (257).
Con una media di tre proiezioni al giorno (e senza neanche considerare che in alcune multisale un titolo potrebbe essere programmato su più schermi, anche se risulta solo una copia) per i quattro giorni del weekend, ecco che questi film già dopo un fine settimana hanno rispettato l’obbligo di 2.100 proiezioni. E sono tutti titoli che non hanno incassato neanche un milione, alcuni anche meno di 500.000 euro! D’altronde, se uno spende 4-5-6 milioni per un film, sarebbe logico pensare che una parte non indifferente si provi a recuperarla sul grande schermo (o, almeno, si punti a fare una bella partenza e a non andare troppo distanti da quanto speso in P&A, per poi ottenere bei risultati dagli altri sfruttamenti).
Tra parentesi: mi sembra sempre molto buffo quando leggo lamentele sul fatto che l’affollamento di film italiani crei problemi a uscire in maniera significativa. A me non sembra, quando sui film c’è un investimento e intenzioni reali, allora si esce bene (come dimostrano proprio i quattro titoli che ho elencato sopra, produzioni importanti ma che non sono Zalone o Cortellesi), altrimenti in molti casi non c’è mai stata l’intenzione di arrivare in un numero importante di sale.
I pericoli veri di queste norme però ci sono e non solo perché tanti produttori (e anche tanti distributori) non hanno modo di uscire facilmente con un numero di copie che rispetta gli obblighi di proiezioni. Elenco qualcuno di questi rischi, ma sicuramente ce ne saranno altri.
Una è l’ovvia strategia che hanno molti distributori nei confronti di piccoli film d’autore, magari di registi alla prima o alla seconda opera. Si inizia magari con poche copie (esclusivamente nelle grandi città) e, se le cose vanno bene, ci si estende in molte più sale, anche di provincia. Il problema è che spesso (per i medio-piccoli) le cose non vanno bene e, giustamente, né il distributore né gli esercenti meno forti (e con meno sale a disposizione) vogliono continuare a spendere/non guadagnare con questi titoli. Ecco, con le nuove norme questi distributori, così come i produttori dietro a questi titoli (e che magari pagano il P&A dei film in questione ai distributori) sarebbero costretti a continuare la loro avventura per rispettare i minimi di proiezione.
A quel punto, arriviamo al pericolo numero due (che può subentrare anche subito), ossia tutti gli stratagemmi per rispettare le norme in questione. Magari con una marea di film italiani che usciranno tra maggio e agosto, non perché vedono l’estate come un’opportunità, ma solo per rispettare le norme. E, in qualche caso, con borderò che certificano proiezioni… diciamo ‘fantasiose’. Peraltro, nel decreto si dice espressamente questo:
Il decreto di cui all’art. 38, comma 1, può prevedere ulteriori disposizioni applicative e integrative relativamente ai requisiti minimi di circuitazione cinematografica previsti nei precedenti commi 1 e 2, anche delineando schemi distributivi da considerarsi, ai fini dell’ammissione al credito d’imposta, equivalenti a quelli indicati nel comma 1 e 2 individuati nel presente articolo, nonché gli effetti del mancato rispetto del requisito del numero di proiezioni minimo richiesto in caso di fatti sopravvenuti e imprevedibili o comunque di impedimenti oggettivi, debitamente documentati, non imputabili alle società di produzione e distribuzione.
E cosa succederà quando tanti distributori certificheranno (anche facilmente) che loro 2.100/900 proiezioni le avrebbero fatte volentieri, ma i cinema non volevano i loro titoli? In generale, come si fa a chiedere a un produttore di rispettare un obbligo, se poi il coltello della parte del manico sul ‘rispetto dell’obbligo’ lo hanno i proprietari delle sale? Ma forse, un elemento molto indicativo è questo:
per le opere con costo inferiore o pari a euro 3.500.000: numero minimo di proiezioni pari a 240 nell’arco di 3 mesi o, in alternativa, per le opere con costo inferiore a euro 1.500.000, la partecipazione a festival di rilevanza internazionale individuati in apposito decreto del Direttore generale cinema e audiovisivo
Insomma, basta essere selezionati a un Festival importante e non servono più 900/240 proiezioni. Discorso simile per per chi prende i selettivi:
i. per le opere con un costo superiore a euro 3.500.000: un investimento per la promozione non inferiore a euro 200.000 e la previsione, entro quattro settimane dalla prima uscita, di almeno 2.100 proiezioni in almeno 100 sale con una proiezione almeno nella fascia oraria 18,30-21,30;
ii. per le opere con costo inferiore o pari a euro 3.500.000: numero minimo di proiezioni pari a 240 nell’arco di 3 mesi o, in alternativa, per le opere con costo inferiore a euro 1.500.000, la partecipazione a festival di rilevanza internazionale individuati in apposito decreto del Direttore generale cinema e audiovisivo e, in aggiunta, un contratto con fornitore di servizi media audiovisivi aventi le caratteristiche minime contenute nel medesimo decreto direttoriale di cui al presente periodo.
E’ l’ulteriore dimostrazione di una cosa che denuncio da tempo, ossia che stiamo accettando che i film si facciano solo per i festival (e quindi, per un ristrettissimo pubblico di addetti ai lavori) o (adesso) per i membri della commissione che giudicano a chi assegnare i selettivi (quindi, un ‘pubblico’ ancora minore), non per gli spettatori normali. E’ un discorso talmente elitario, che non saprei neanche come commentarlo.
E ha assolutamente ragione Emanuele Caruso nel dire che, con questo decreto, chi fa parte della commissione dei selettivi in buona sostanza non solo decide chi prende questo contributo pubblico (ovvio), ma anche chi riesce a farsi produrre in assoluto (questa una responsabilità e un potere enormi). Anche perché uno può decidere di produrre un film dopo aver preso un selettivo, ma non può partecipare a un festival senza avere il film pronto (a meno che non abbia un regista famosissimo e sicuro di finire a una manifestazione importante, di quelle che figurano nelle liste del Ministero).
E, in questo senso, l’annuncio di 52 milioni di euro di contributi selettivi destinati a sostenere “opere su personaggi e avvenimenti dell’identità culturale italiana” mi preoccupa, perché sembra un ulteriore sostegno a tanto cinema d’autore/da festival (difficile pensare che, con queste premesse, si facciano horror, thriller o musical “su personaggi e avvenimenti dell’identità culturale italiana”), in un panorama in cui già c’è un eccesso di questo genere di prodotti.
La mia paura è che la contrapposizione “cinema elitario per un pubblico di over 40” con cui è accreditata (non senza qualche ragione) l’area politica di sinistra contro la visione “cinema per il grande pubblico” (che avrebbe potuto essere una novità interessante di questo governo di centrodestra e che dovrebbe essere la linea in base a certe dichiarazioni lette), rischia seriamente di diventare “cinema elitario” contro “cinema elitario”, con qualche differenza nelle figure di riferimento, ma con un’impostazione di base che non sembra preoccuparsi troppo dei gusti di tutto il pubblico e dell’eccesso non tanto di film prodotti in sé e per sé (cosa che si sente dire spesso), ma di documentari e di cinema d’autore (che è un danno anche per gli stessi autori, visto che diventa quasi impossibile emergere in questa concorrenza enorme). In ogni caso, spero di sbagliarmi io sui risultati concreti che porterà questo nuovo contributo selettivo alla produzione… (Fine 1° parte)
Sulla copertura del 40% mi permetto di eccepire. A conti fatti, le solite aziende potranno dimostrare - tra il contributo ministeriale, il valore aggiunto della o delle film commission regionali, lo sponsor di categoria e, nel caso di coproduzioni - da Rai a Medusa et similia - di essere ben più che coperti. Certo, per i piccoli sarà più difficile: ma se guardiamo bene, la stragrande maggioranza delle aziende minime, ha prodotto sì e no un paio di film nel corso della propria attività. Non sto certo dicendo che sia un buon tax credit, tutt'altro. Ma ragionando sul discorso produttivo, almeno aiuterà chi fa cinema a pensarci ben più di una volta, prima di produrre l'opera del figlio/a/amic/parente ecc di Tizio con il nome necessario ed a presentarsi in commissione con un misero foglio paga per troupe e struttura.